Passa ai contenuti principali

Logoteatroterapia: cos'è e come nasce

L’idea della Logoteatroterapia mi è venuta dopo aver lavorato e riflettuto per molti anni sull’incontro e il confronto tra diverse discipline che hanno un comune denominatore: la persona e la sua insopprimibile, effervescente, dirompente necessità di comunicare.

Molteplici sono i significati e le accezioni di logos, dal greco antico. Solo per citarne alcune:
Da Wikipedia: “scegliere, raccontare, enumerare, pensare, parlare”.
Secondo Heidegger anche “l’udire autentico appartiene al logos”, cioè l’ascoltare.
Per Platone il logos è “l’espressione tramite suoni linguistici del pensiero”.
Dall’enciclopedia Treccani: “voce greca che oscilla tra ragione, discorso e parola”.
Dal Dizionario Italiano: “parola intesa come manifestazione del pensiero”.
Dal Dizionario De Mauro: “nella filosofia dell’antica Grecia, parola, discorso, ragionamento; il linguaggio in quanto attività intelligente, ordinatrice dell’esperienza”.

Altrettanto numerose e diversificate sono le definizioni attribuite alla parola teatro.
Il termine teatro ha origine dal greco théatron, che significa "spettacolo", unito al verbo theàomai, ovvero "vedo", ed è un insieme di differenti discipline, che si incontrano per la realizzazione di un evento spettacolare dal vivo. Il vocabolo teatro racchiude in sé anche il concetto di dramma, ancora di origine greca, il cui significato è da riferirsi all’azione, all’agire.
La rappresentazione teatrale avviene sempre di fronte a un pubblico e può utilizzare o meno l’aspetto verbale, il gesto, la musica, la danza, l’espressione corporale. Il più delle volte la performance si basa su un testo prestabilito, ma anche qui la presenza di quest’ultimo non è conditio sine qua non per definire l’atto teatrale: in realtà anche il solo movimento del corpo dell’attore in uno spazio deputato alla rappresentazione ed eseguito di fronte ad almeno uno spettatore, è già di per sé definibile teatro. Infine, anche l’utilizzo scenico di ombre o burattini rientra nella rappresentazione.
Una particolarità: in molte lingue europee come l’inglese, il francese, il russo, il tedesco e l’ungherese, il verbo recitare coincide con il verbo giocare. Questo non accade invece con l’italiano, in cui recitare (citare due o più volte) è riconducibile all’uso della parola, all’intenzionalità della comunicazione, e alla ripetitività dell’atto recitativo.
Peculiarità della rappresentazione: essa viene realizzata da attori in carne e ossa che respirano, agiscono, parlano, vivono, e avviene in un dato momento, in un dato luogo, di fronte a determinate persone e non altre. La sera successiva non sarà mai uguale alla precedente, ma sempre diversa, sempre “in cammino”, in continua evoluzione. ...il Teatro vuole l'attore vivo, e che parla e che agisce scaldandosi al fiato del pubblico; vuole lo spettacolo senza la quarta parete, che ogni volta rinasce, rivive o rimuore fortificato dal consenso, o combattuto dalla ostilità, degli uditori partecipi, e in qualche modo collaboratori. (Silvio D’Amico, Storia del teatro).
Il teatro è l’arte del qui e ora. Esiste nel momento esatto in cui si apre il sipario e si accendono i fari; un momento dopo la chiusura dello stesso e l’ultimo applauso non esiste più, e solo la memoria di pubblico e attori può testimoniarne il passaggio sulle tavole del palcoscenico.
Per finire, con la parola terapia si intende una molteplicità di azioni, compiute con il solo scopo di alleviare o risolvere uno stato di disagio o sofferenza.
Durante una lezione del Master in Artiterapie dell’Università La Sapienza, il prof. Luigi Dotti pronunciò l’enunciato secondo cui “fare terapia equivale a prendersi cura della persona”.
Alcuni anni or sono, durante un corso d’aggiornamento all’interno del Ce.I.S., Harold Bridger del Tavistock Institute si trovò a riflettere insieme agli operatori delle comunità di recupero dalle dipendenze sul significato del concetto di terapia. Al termine della vivace discussione che scaturì dalla domanda dell’esimio professore, tutti gli astanti si trovarono d’accordo nel ritenere terapia qualsivoglia attività che permetta all’utente di compiere un passaggio verso il miglioramento della propria qualità di vita. Pertanto si può identificare come terapia tanto il colloquio con il proprio analista quanto un intervento di arteterapia (musica, danza, pittura o teatro), o persino il compiere semplici azioni quotidiane volte al benessere del singolo della comunità, quindi riuscendo a prendersi cura di se stessi e degli altri.

Cecilia Moreschi

Dall’esperienza ventennale di conduzione di laboratori teatrali e messinscena di spettacoli con bambini, adolescenti e adulti affetti e non da disabilità dell’area del linguaggio, mi è venuta pertanto l’idea di dare un nome al mio lavoro: LOGOTEATROTERAPIA, disciplina che rende possibile l’incontro tra la teatroterapia, la clownerie, la comicoterapia, il teatro ragazzi e la abilitazione e riabilitazione del linguaggio.

Se dovessimo esprimere una indubbia caratteristica della logoteatroterapia – in breve LTT - sarebbe la lentezza. La LTT ricrea, mattone dopo mattone e attribuendo la giusta importanza a ogni passaggio, tutte le tappe evolutive necessarie allo stare in scena e comunicare qualsiasi tipo di messaggio al pubblico.
Facciamo un esempio. Uno dei pre-requisiti di base del fare teatro è l’azione minima. L’attore entra in scena e si ferma al centro. Questo presuppone una serie di capacità che normalmente si danno per acquisite: che l’attore conosca il dentro e il fuori, per poter entrare in scena; che abbia sufficiente consapevolezza di se stesso per comprendere se si trova già in scena o ancora dietro le quinte; che trovandosi a entrare sappia camminare seguendo un’immaginaria linea retta; che sappia utilizzare le proprie facoltà inibitorie per potersi fermare al momento e nello spazio richiesto; che abbia, di conseguenza, introiettato il concetto della pausa; che sappia compiere un quarto di rotazione per girarsi a favore di pubblico e non verso il fondale; e, in ultimo, ma non meno importante, che riesca per qualche secondo a sostenere lo sguardo dello spettatore, senza dover necessariamente compiere un’azione o affrettarsi a scomparire dietro la quinta opposta.

Tutte queste competenze vengono date per scontate non solo nel giovane attore che inizi a cimentarsi sulle tavole del palcoscenico, ma anche in qualsiasi individuo che si trovi a compiere una qualsivoglia attività. Dall’andare verso la cattedra una volta che si viene chiamati dalla maestra, al recarsi al bar a prendere un caffè attraversando la strada, dal giocare a uno, due, tre, stella!, all’imparare a memoria le tabelline, tutte le attività dell’essere umano hanno come imprescindibili fondamenta concetti come propriocezione, orientamento spazio-temporale, pausa, inibizione, alternanza di destra e sinistra e di tensione-rilassamento.
Provate a immaginare il lavoro eseguito da un mimo per mostrare l’invisibile muro davanti a sé avendo a disposizione solo le sue mani: si tratta di una lunga sequenza di tensione-pausa-rilassamento e successiva traslazione, che egli opera con le mani e a seguire con tutto il corpo. Questo sarebbe impossibile se il mimo non avesse raggiunto le tappe evolutive spazio-temporali necessarie.

Di conseguenza, la LTT utilizza tutti i giochi, gli esercizi propri del laboratorio teatrale con la finalità di ricreare, ricostruire il movimento nello spazio, il linguaggio o comunque le facoltà comunicative, il rapporto con l’altro.
Il teatro è pertanto utilizzato come mezzo, non come fine, ed è per questo che chiunque può accostarsi a questa disciplina, non soltanto chi abbia dentro di sé il fuoco dell’attore. Ma, nello specifico, la LTT è specialmente diretta a tutti coloro che abbiano non solo una riconosciuta disabilità nell’area del linguaggio espressivo, ma anche qualche piccola, velata, nascosta difficoltà, che li porta a parlare troppo velocemente, ad arrossire in pubblico, a mangiarsi le parole, a mostrare una lieve goffaggine motoria, livelli minimi d’attenzione e concentrazione, disorganizzazione spazio-temporale, bassa tolleranza alle frustrazioni, eccessiva emotività.

Malgrado sia lungi dall’essere definibile una disciplina di tipo prettamente psicanalitico, la LTT interviene, come già detto, sulle tappe evolutive necessarie alla comprensione e produzione del linguaggio espressivo, che sono inevitabilmente permeate di propriocezione e orientamento spazio-temporale, utilizzando il movimento del corpo nello spazio a supporto della trasmissione del messaggio che si intende trasmettere.

Nella LTT cambia il punto di vista. A differenza del teatro tradizionale, dove c’è un regista che assegna le parti e dirige la scena, il teatroterapista si mette a servizio del bambino o comunque dell’individuo, cercando di intuire le sue fragilità e intervenendo esattamente su quelle, facendo leva sui suoi punti di forza. Non solo, cercando anche di comprendere la contingenza, il momento che la persona sta vivendo e cosa necessita in quel frammento della sua esistenza. Di ridere, o superare un blocco, magari addirittura una paura, oppure raccontare un evento appena accaduto. Nella LTT l’essere umano è al centro e il teatro è al suo servizio.

Esempi:
Uno dei ragazzi che partecipano al laboratorio è affetto da una grave forma di disabilità intellettiva. Spesso oppositivo, non riesce a sostenere lo sguardo dell’altro, rifiuta di essere toccato, non riesce a tollerare troppe persone nella stessa stanza con lui. Le prime settimane in cui partecipa al laboratorio di LTT, gli permetto di stare seduto da una parte e osservare soltanto. Gli altri ragazzi lo salutano, lui spesso si gira dalla parte opposta. Però riesce a rimanere nella stanza insieme a tutti noi. Pian piano ottengo che si sieda in cerchio con tutti. Comincia ad alzare lo sguardo e sostenere il nostro per qualche secondo. Impara i nostri nomi, saluta, a volte sorride. Di settimana in settimana è sempre più inserito, finché gli chiedo di entrare nello spazio deputato a spazio scenico e non si oppone. Con grande soddisfazione da parte di tutti, comprende dove si trovi il punto di partenza, esegue una breve camminata per raggiungere il centro della scena, si gira verso il pubblico e riesce a guardare ciascuno negli occhi, sostenendo contestualmente lo sguardo degli altri. Una volta terminata l’azione da me richiesta, si gira ed esce dalla parte opposta, quella che abbiamo identificato come il punto finale della performance. Un grande applauso sancisce la fine della sua esibizione e per la prima volta il ragazzo tollera l’energia liberata. Dalla settimana successiva, a suo modo e con piccole azioni, riuscirà a partecipare a quasi tutti i giochi proposti, fino a recitare insieme a me una brevissima scena in cui facciamo finta di essere personaggi diversi dalla nostra realtà.

Un pomeriggio mi trovo a lavorare con un gruppo di adolescenti audiolesi. Uno di loro manifesta una fastidiosa situazione scolastica, una dinamica che ormai si è creata con un suo insegnante, che non riesce a interrompere o deviare su strade alternative. Ecco che il teatro ci viene in aiuto: tramite l’inversione dei ruoli, tutto il gruppo si trova a rappresentare scenicamente la dinamica da lui raccontata, e il protagonista della storia si troverà a fare proprio la parte del professore che non sopporta. Calandosi nei panni dell’altro, è più facile comprendere ciò che lo spinge ad agire come agisce. Ripetiamo la scena una seconda volta, stavolta il nostro protagonista interpreta se stesso e cerca di trovare una strategia per comunicare il suo disagio al professore. Infine, grazie anche all’aiuto del pubblico che ha visto il tutto da fuori e ha analizzato la scena, le azioni e i personaggi, dialoghiamo e troviamo tutti insieme una strategia convincente per poter gestire al meglio la relazione. Anche gli altri ragazzi intervengono con esperienze analoghe, stati d’animo similari e suggerimenti sulla gestione dei rapporti scolastici. Tutto questo grazie alla messinscena del vissuto di quell’adolescente, narrata, vissuta e analizzata tramite l’improvvisazione teatrale.

Una mattina a settimana lavoro con alcuni bambini delle scuole elementari. Propongo una favola da mettere in scena, ne sono entusiasti. Dopo averla narrata più volte, permetto loro di scegliere il personaggio che desiderano interpretare, ma prima di iniziare a recitare mi fermo un attimo e chiedo ai miei giovani attori quale ritengono che sia l’inizio della storia. Mi rispondono citando l’evento che scatena l’azione, ma non è quello l’inizio. Mi accorgo quindi, una volta di più, che stavo procedendo seguendo il mio ritmo e non il loro, e che è necessario fermarsi e fare luce sulle eventuali zone d’ombra. Ci sediamo a terra, chiedo ai bambini di raccontarmi nuovamente la storia. Ad ogni cosa che narrano, chiedo perché sia accaduta, quale sia l’origine degli eventi. Pian piano arriviamo al vero punto d’inizio, con grande soddisfazione da parte di tutti. Riusciamo a giungervi non perché un adulto glielo abbia comunicato, ma perché i bambini stessi si sono fermati a ragionarvi e hanno compreso in che modo la favola aveva inizio.

La LTT non dà nulla per scontato o già acquisito, non ha fretta di realizzare lo spettacolo perché al centro dell’esperienza non c'è la performance. Ci si prende il lusso di compiere pochi e brevi passi alla volta per non stressare i giovani attori e soprattutto verificare che abbiamo afferrato del tutto cosa stanno per fare.
Perché, ripeto e sottolineo con tutta me stessa, la logoteatroterapia pone l’essere umano e il suo benessere al centro di tutto.


Cecilia Moreschi
Regista, attrice, drammaturga, teatroterapista e docente teatrale

Commenti

  1. lavorando con Cecilia si assapora la passione che mette nel suo lavoro ed i grandi progressi dei mini attori che con grande entusiasmo partecipanoa lle sue classi di logoteatroterapia.

    RispondiElimina

Posta un commento