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Alcuni anni fa.
Matteo, nome di fantasia, mi viene segnalato da una collega e inviato a lavorare con me in un percorso di logoteatroterapia. Il ragazzino frequenta la prima classe della scuola primaria di secondo grado e sulla carta è affetto da DSA. In realtà, come spesso accade, non è quella la sua problematica più importante. Una grande carica di rabbia che spesso si tramuta in oppositività, alberga dentro di lui e sembra tenerlo in scacco, rendendolo un preadolescente ombroso, sfuggente, di pochissime parole e ancor meno interazioni sociali.
“Costretto” a partecipare al mio laboratorio non perde occasione per dichiarare che non gli interessa e che trova del tutto inutile il mio intervento. Tento in tutti i modi di stabilire una relazione con lui ma è davvero faticoso dialogare con questo ragazzino che alza le spalle e gli occhi al cielo a qualsivoglia domanda o espressione gentile.
Le settimane passano, le attività si susseguono. Qualcuna a volte funziona, la maggioranza no, finché decido di stravolgere completamente il mio programma e iniziare dalla fine, ovvero dalle scene recitate. Del resto la logoteatroterapia è al servizio dell’individuo, occorre non dimenticarlo mai.
Matteo quindi si butta nelle improvvisazioni e finalmente trova un luogo dove poter esprimere tutta la sua carica di rabbia senza alcuna conseguenza sulla vita reale. Risulta subito evidente quanto la forte emozione che vive dentro di lui la maggioranza del tempo sia nei confronti del mondo adulto. Ecco quindi che nella scena in cui siamo rispettivamente poliziotto e ladra fa il prepotente con me. La stessa cosa accade una settimana più tardi quando decide di ambientare la vicenda in una prigione. Io e le colleghe siamo le detenute, lui e gli amici i carcerieri che ci trattano con una dose di cattiveria e sadismo tale da ricordare le torture medievali dell’Inquisizione. Eppure ridiamo tanto e spesso, soprattutto nei momenti più esagerati e paradossali.
Vedo il suo corpo, soprattutto le spalle, iniziare finalmente a rilassarsi. A stemperare almeno in parte la tensione che lo accompagnava sempre. Matteo scopre che recitare gli piace, che lo fa star bene e continua a chiedermelo, di settimana in settimana (le neuroscienze ci hanno sapientemente illustrato quanto il cervello ricerchi ciò che gli ha dato piacere in precedenza). Finalmente quindi ho un aggancio con lui e grazie a esso posso lavorare su tutto il resto, con la motivazione che a ogni esercizio concorre al miglioramento dell’improvvisazione che faremo successivamente. Matteo accetta, ascolta, ricomincia, tollera la frustrazione, vuole migliorare. Ma, cosa ancor più importante, sorride.
Nelle ultime settimane stiamo provando la scena che lo vedrà protagonista al consueto spettacolo di fine anno. Una volta terminata la prova, abbiamo ancora del tempo a nostra disposizione. Gli propongo un gioco che tempo prima gli piaceva tanto. “Ma no”, mi dice lui, “continuiamo a recitare.” Riprendiamo le improvvisazioni che facevamo mesi fa. Benissimo, rispondo io, ma stavolta in maniera differente. Matteo accetta e finalmente posso lavorare sulle emozioni tramite una serie di brevissime entrate in scena. Matteo si impegna, prova, sbaglia, ricomincia. Quanto è lontano quel ragazzino che non mi guardava negli occhi e alzava le spalle come perenne risposta al mondo circostante. Adesso ha uno sguardo pieno, diretto, vivace. Si interessa agli altri, dialoga, e soprattutto tollera il contatto fisico dei suoi pari.
Grazie, Matteo, di avermi mostrato che, a volte, si può anche iniziare dalla fine.
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