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Logoteatroterapia e disprassia

Disponibile anche tramite podcast.

Qualche anno fa, mentre il Covid continuava a farsi sentire e tutti noi eravamo costretti a lavorare con mascherine, distanza, finestre aperte e gel per le mani, arrivò Simone (nome di fantasia) al mio laboratorio di Logoteatroterapia per bambini dai 7 ai 9 anni. Il bambino era affetto da disprassia grosso motoria, ma non fu difficile rendermi conto che tale disagio aveva fatto sì che in lui si sviluppasse un’altra problematica, altrettanto invalidante. Il disturbo di coordinazione dello sviluppo (DCD), noto anche come disturbo di coordinazione motoria dello sviluppo, disprassia dello sviluppo o semplicemente disprassia, è un disturbo dello sviluppo neurologico caratterizzato da compromissione della coordinazione dei movimenti fisici a seguito di messaggi cerebrali che non vengono trasmessi con precisione al corpo. Simone era un ragazzino di grande intelligenza, assolutamente consapevole delle proprie difficoltà e che soffriva enormemente nel vedere i suoi compagni giocare a calcio, a palla prigioniera e altri giochi all’aperto, senza che a lui fosse concesso l’esser bravo quanto loro. Sui banchi di scuola la situazione era ancora peggiore: tenere in mano la matita, i colori, scrivere o disegnare alla velocità richiesta, sembrava un’impresa titanica. La continua frustrazione che scaturiva da tutto questo,

Cecilia Moreschi
portava Simone a essere perennemente arrabbiato, scontroso, permaloso e rinunciatario in partenza a qualsivoglia nuova attività.
La sua mamma credeva però moltissimo nella Logoteatroterapia e, andando oltre le rimostranze del bambino, lo portò a giocare insieme a me.
Fu chiaro fin dall’inizio che se non avessi costruito un rapporto con lui, se Simone non fosse riuscito a fidarsi di me, non sarei riuscita a raggiungere alcun tipo di obiettivo. Le prime settimane pertanto, trascorsero nell’andare in continuazione oltre alla sua perenne oppositività, nel gratificare il poco che riusciva a fare, nel calibrare e modificare in continuazione l’intervento per adattarlo alle sue esigenze, ad esempio permettendogli di dare i comandi di un gioco che io svolgevo con gli altre tre bambini invece di farlo insieme a noi. Pian piano (e grazie anche al gruppo dei pari) la scorza di opposizione e contestazione su tutto che Simone si era costruito per difendersi dagli inevitabili insuccessi, iniziò a sgretolarsi. In qualche raro momento, il bambino addirittura sorrideva. Iniziò a fidarsi di me, a fare quanto gli chiedevo, a provarci gusto nel recitare piccolissime scene o fare il gioco della marionetta. Finché, un bel giorno, avvenne il miracolo.
Dopo numerose attività finalizzate alla percezione di tensione/pausa/rilassamento, introdussi un piccolissimo esercizio di mimo da fare solo con le mani. Simone riuscì a compierlo, restandone affascinato. Avrebbe voluto ripeterlo cento volte, lo perfezionava, lo arricchiva. La settimana seguente me lo richiedeva, ed era davvero bravo; mostrava a tutti gli altri bambini orgogliosamente quanto le sue mani riuscissero a controllarsi e “far vedere quello che non c’è”, come nella tradizione del mimo. La mamma mi raccontò successivamente che anche a casa si esercitava nella sua cameretta. Finalmente aveva trovato qualcosa in cui riuscire, che gli piaceva da matti e nella quale era davvero bravo.
Fino a quel momento Simone aveva sempre affermato che non avrebbe invitato nessuno alla lezione aperta finale. Invece ora si sentiva più sicuro: invitò la mamma e la sorellina e non vedeva l’ora di essere per una volta il protagonista e ricevere i tanto meritati applausi.

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