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Una mattina conduco il laboratorio di Logoteatroterapia con tre ragazzi che frequentano le scuole medie. Due di loro sono affetti dal Disturbo dello Spettro Autistico, il terzo da un grado lieve di disabilità intellettiva unita a un’incipiente balbuzie. Al di là delle etichette, i tre ragazzi sono davvero simpatici, ed è un piacere lavorare con loro.
Stiamo preparando la scena che li vedrà protagonisti all’interno del prossimo spettacolo teatrale. Il terzetto ha ormai memorizzato battute, azioni, espressività e movimenti nello spazio scenico. Possiamo dunque passare al cambio di
Come sovente accade non solo a me ma anche a tutti coloro che svolgono il mio stesso lavoro, il luogo nel quale ci troviamo a operare non è il teatro dove andrà in scena la performance. Spesso abbiamo a nostra disposizione sale più o meno ampie, con quantità di luce a volte non adeguata, troppi oggetti o troppo pochi, suoni che arrivano dall’esterno e così via. Ho imparato nel tempo a far buon viso a cattivo gioco interpretando tutto questo come una risorsa invece che un problema. Uno spazio del genere mi fornisce la possibilità di lavorare ancor più sull’attenzione selettiva dei miei ragazzi; sull’allungamento dei loro tempi di concentrazione; sulla capacità di portare a termine il compito che ci siamo prefissati anche nell’ambiente non ideale, trovando pertanto dentro noi stessi e non all’esterno tutte le risorse necessarie. Io stessa, quindi, ho sviluppato negli anni un “cambio di orientamento”, adattandomi a ogni ambiente, più o meno adeguato, per poi sfruttarlo proprio per i suoi “difetti”, per così dire, facendo in modo che gli ostacoli da superare si trasformino in opportunità per diventare più forti e più capaci.
Torniamo ai tre ragazzi del venerdì mattina. Ritengo che abbiano sufficientemente stabilizzato dentro di loro l’intero contenuto recitativo (composto, come già esplicitato, di numerosi piccoli elementi che vanno a integrarsi nella realizzazione teatrale) tanto da poterlo trasporre in uno spazio scenico differente. Ruotiamo quindi il tutto di centottanta gradi. Lo spazio deputato alla scena diviene la platea e viceversa. I nostri eroi hanno un momento di incertezza nell’identificare la quinta di destra dalla quale sono soliti entrare, ma dopo una manciata di secondi riescono a ricreare il tutto nella loro mente e successivamente nel nuovo spazio scenico, riportando gli elementi fino a questo momento interiorizzati, pur avendo ora le finestre alle loro spalle e non più di fronte come nelle settimane precedenti. Come se non bastasse, opero un ulteriore cambiamento, chiedendo a un’attrice diversa dal solito di recitare insieme a loro. E anche qui il terzetto mi stupisce per l’abilità di assorbire quest’ultima modifica di natura squisitamente relazionale. “Benissimo”, rimando loro al termine della scena, “ora siete davvero pronti.”
Il cambio di orientamento è un elemento tanto semplice quanto potente. Permette di verificare se gli attori sono davvero padroni di ciò che andranno a interpretare. Stempera, almeno in parte, le eventuali rigidità, che tanto spesso fuoriescono mentre si recita. Allena, pertanto, la flessibilità cognitiva. Rende l’attore maggiormente sicuro di sé e della propria performance, la cui riuscita non dipende dall’esterno ma da tutto il lavoro interno che egli/ella ha compiuto dentro sé. E così via.
Se tutto ciò non bastasse, il cambio di orientamento serve anche a noi, terapisti e/ operatori del settore. Ci aiuta a ricordare che il setting dove ci troviamo a lavorare è importante ma non fondamentale. Se con la nostra immaginazione riusciremo a fornire loro la luce, l’acqua, il nutrimento, gli spazi interni ed esterni per le radici e la chioma dello splendido albero che diventeranno, noi in primis saremo lo specchio dei nostri ragazzi, il luogo che li accoglie, il teatro dove il loro talento può svilupparsi.
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