Carlotta Chiaramonte è una straordinaria logopedista, nonché allieva del corso di Logoteatroterapia per professionisti. Ecco cosa ci racconta in merito a un bambino di 4 anni che partecipa al suo laboratorio di Logoteatroterapia presso il Centro Plòion del quartiere San Lorenzo a Roma.
Da qualche settimana è partito un laboratorio di Logoteatroterapia condotto dalla sottoscritta, con la supervisione di Cecilia Moreschi, al quale partecipano bambini di quattro anni dall’entusiasmo esplosivo e dalla fantasia sconfinata.
Ogni volta preparo un programma delle attività che faremo, seguendo un filo logico fatto di obiettivi, di brevi passi che puntano a raggiungere abilità o rafforzarne altre emergenti.
Nello stilare il programma mi guidano loro, con le loro unicità e le loro idee e reazioni.
Cammino sul tracciato della Logoteatroterapia, con le sue basi scientifiche ed esercizi pensati proprio per agire su determinate sfere e per favorire specifiche competenze del bambino.
Poi però, spesso e volentieri il mio programma viene sconvolto e mi trovo a gestire l’imprevedibilità.
Questi bambini per la prima volta spalancano gli occhi sul mondo e accolgono le mie proposte; rispondono e raccolgono in maniera del tutto spontanea, come carta assorbente, i vari giochi e gli esercizi.
Ognuno, pur così giovane, porta dentro di sé già semi di vissuti che vincolano e indirizzano l’approccio che hanno verso piccoli e grandi accadimenti del loro quotidiano; tra questi, le attività della Logoteatroterapia.
Vi racconto di Giulio (nome di fantasia), bambino oppositivo e affetto da un ritardo di linguaggio, che ha iniziato la Logoteatroterapia per consiglio di una collega logopedista, la quale, osservando e imbattendosi nelle sue resistenze, non riusciva più a essere funzionale con lui nella terapia individuale.
Giulio è tranquillo e ben inserito nel gruppo del laboratorio, si sente a suo agio anche perché già conosce alcuni degli altri bambini, ma non vuole partecipare ad alcuni giochi.
Fa spallucce, mostra il labbro, scuote la testa quando è il suo turno.
Decido di non dare troppa importanza a questa sua avversione al prendere parte attivamente al gioco.
Ogni tanto gli permetto di autoescludersi, ma con la coda dell’occhio controllo le sue reazioni e i suoi movimenti.
Se non lo guardo, spontaneamente e con minuscoli guizzi, sorride e inizia a muoversi e a seguire il gruppo.
A volte, fingendomi di dimenticare la sua posizione, cerco di dare a lui il comando; altre, se si incaponisce nel restare in disparte o vuole far altro, gli faccio notare come sono bravi gli altri e come si divertono.
Faccio direttamente esprimere gli altri bambini, chiedendo loro con semplicità di verbalizzare ed esternare il “come si sentono” durante l’esercizio del caso: nel farlo, sono loro stessi che provano a coinvolgerlo e tirarlo dentro all’attività. Io mi limito a precisare, poi, che queste attività a casa non si fanno!
Quando mai capita di poter suonare un tamburo, camminare coi passi pesanti o di fingersi una marionetta?
Al contrario, leggere un libro o impilare dei cubetti sono azioni che possono tranquillamente essere svolte quotidianamente nella propria cameretta.
Alla fine di ogni incontro mi piace domandare ai piccoli partecipanti quali siano i giochi che più li hanno divertiti.
E Giulio, al termine del terzo incontro, prorompe con “Mi sono piaciuti tutti i giochi”.
Nell’ascoltare queste parole ho nascosto la gioia e la conferma di quanto avevo sentito dentro di me e che mi aveva guidato nell’agire verso e per Giulio stesso.
Mentre sistemavo la stanza, terminato il nostro terzo incontro, qualcuno ha suonato alla porta. Erano passati già diversi minuti da quando avevo salutato bambini e genitori.
Giulio è tornato: aveva perso un guanto.
Dopo averlo trovato, è rimasto sulla soglia guardandomi e ondeggiando sul posto.
Il papà, nell’attesa, mi ha detto: “Ieri non vedeva l'ora di venire all’incontro del sabato”.
Giulio non voleva andare via e continuava a guardarmi: sentivo che c’era qualcosa che desiderava e non chiedeva.
Non conoscendo cosa lo facesse rimanere in attesa, ho cercato di indagare facendogli delle domande: voleva dirmi qualcosa? Si era dimenticato altro? Gli era rimasta dentro una domanda da fare?
Dopo qualche tentativo e ipotesi nei confronti dei quali ho ottenuto solo un suo accennato scuotimento della testa, ancora sulla porta, gli ho domandato se per caso volesse un abbraccio.
Si è illuminato e mi ha fatto cenno di sì.
Ci siamo abbracciati teneramente.
Sento il cuore pieno; che magia l’ascolto e l’accoglienza di ogni sentire, il rispetto dell’altro, partendo dal più piccolo essere umano con le sue piccole o tumultuose emozioni.
Carlotta Chiaramonte. Roma, 6 febbraio 2024
Grazie Carlotta per quello che fai per il benessere dei nostri bambini e bambine.
Di Cecilia Moreschi
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