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Come dire, le sorprese non finiscono qui. Nello scorso articolo vi ho illustrato come, dopo un anno di duro lavoro sulla costruzione di monologhi - ovvero il recitare rivolgendosi direttamente al pubblico -, la mia giovanissima attrice, che convive da sempre con alcune problematiche uditive e pragmatiche, abbia naturalmente generalizzato l’apprendimento ottenuto, arrivando addirittura a sviluppare una sorta di autocritica interiore che le permette di verificare se la sua esposizione orale è chiara e scorrevole oppure no.
Ma la scorsa settimana mi riserva ancora una nuova scoperta.
Lo spettacolo di Logoteatroterapia realizzato a fine maggio con 13 adolescenti è stato un vero successo. Come sono solita fare, ho inserito qua e là vari elementi tecnici che i miei ragazzi dovevano esercitare attraverso le prove e la messinscena. Scritto da me insieme a tutti loro, era ambientato in una sorta di Escape Room dalla quale tre concorrenti dovevano fuggire, ignari del reale esperimento nascosto tra una stanza e l’altra del gioco. Improvvisare, scrivere, tagliare, ricominciare da capo affinché le idee primigenie prendessero forma e la narrazione drammaturgica fosse coerente ma anche pregnante, non è stato facile. Eppure, il risultato finale, grazie soprattutto ai ragazzi, è stata una performance ricca di eventi e colpi di scena, di gag divertenti e momenti di riflessione sull’intelligenza artificiale, fino alla battaglia finale tra i concorrenti e gli avatar, vittime di un virus.
All’interno della drammaturgia avevo inserito tre momenti in cui accendere le luci di sala per permettere ai tre concorrenti di dialogare, improvvisando, direttamente con il pubblico e affinare quindi l’abilità oratoria e la gestione dell’ansia. Uno di loro è un simpatico ragazzo di 19 anni, che chiameremo Alessandro, affetto da un grave disturbo. Nondimeno, nel corso delle settimane ha imparato alla perfezione la sua parte e l’ha recitata di fronte al pubblico con tale sicurezza e fiducia in se stesso, da far invidia a numerosi attori più navigati di lui.
Trascorrono due mesi dalla messinscena e incontro di nuovo i ragazzi di quel laboratorio. I parenti di Alessandro mi narrano, felici, delle due settimane di vacanza trascorse dal giovane in un villaggio accompagnato da operatori e altri ragazzi, senza i genitori. Hanno mostrato stupore quando sono venuti a sapere che Alessandro ha partecipato sempre agli spettacoli serali davanti a tutti, ha cantato, ha improvvisato piccole scene comiche e così via. Con grande sicurezza e confidenza. Proprio quel che aveva sperimentato durante la messinscena del nostro Si salvi chi può.
Io stessa rimango felicemente sorpresa nell’ascoltare quei racconti e vedere i video. Ma in realtà, nemmeno poi tanto. Come ho detto più volte, i numerosissimi studi sulla neuroplasticità ci illustrano quanto le esperienze pregnanti, ricche di significato, che ci troviamo a vivere abbiano un fortissimo impatto sul nostro cervello e si trasformino in azione positiva laddove ci troviamo in una situazione similare.
Eccolo dunque, il teatro che si fa vita. Che dona ad Alessandro le competenze necessarie a improvvisare di fronte a un pubblico sconosciuto. Che lo mette in grado di ricevere applausi e complimenti. Che rende felici i suoi parenti, di fronte a tanto coraggio e successo. E infine, ma non meno importante, che rende orgogliosi tutti noi.
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