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Quel pomeriggio, nei primi minuti del laboratorio di logoteatroterapia, Valerio (nome di fantasia) vorrebbe raccontarmi una cosa che ha fatto nei giorni precedenti. La frase che pronuncia è "io fatto cuore" e si spazientisce perché nessuno di noi riesce a comprenderla. Affetto da due disturbi del neurosviluppo che non intaccano assolutamente la sua simpatia, l’estro e la voglia di fare, Valerio è comunque abituato al fatto che gli adulti spesso si sostituiscono a lui, lo aiutano e supportano, si sforzano, interpretano e formulano ipotesi finché comprendono il messaggio. Il nostro ha quindi strutturato nel tempo una comunicazione ridotta all’osso, composta per lo più da frasi minime, con le quali più o meno riesce sempre a cavarsela. Ma stavolta provo a interrompere il tentativo di decodifica di un’altra terapista presente in stanza, e rimando a lui il problema. Con grande calma e lentezza, gli ripeto esattamente quel che ha detto invitandolo a mettersi nei nostri panni: da quelle tre parole (“io fatto cuore”) è impossibile capire alcunché. Valerio accetta di spiegarsi meglio, ma gli mancano altri vocaboli per comporre una frase migliore. Ricorda però il lungo e fruttuoso lavoro che insieme abbiamo svolto lo scorso anno, nel quale avevamo messo a fuoco e sperimentato quanto la gestualità supporti il linguaggio verbale, a volte addirittura possa sostituirsi a esso. Quindi Valerio adotta proprio questa strategia: usa i gesti per mostrare gli elettrodi attaccati al suo corpo finché finalmente siamo in grado di capire che ha fatto l'elettrocardiogramma, ovvero una visita medica al cuore. Appena una di noi pronuncia le parole esatte, un’esplosione di felicità appare sul suo volto, così impegnato nello strenuo tentativo di farsi comprendere. Finalmente possiamo andare avanti e iniziare a giocare. Ma il ghiaccio ormai è rotto e mi dico che devo assolutamente continuare su questa strada. Quindi, per tutta l’ora che trascorreremo insieme, gli rimanderò le frasi ridotte all'osso che utilizza e quanto per gli astanti sia impossibile decifrarle. Ogni volta comprende, non cade in frustrazione, cerca di correggersi e aggiungere elementi verbali o gestuali.
Lo sforzarsi di capire, da parte nostra, l’intervenire in maniera forse invasiva, il tradurre o decodificare in modo in parte ossessivo, non è sempre il bene dei ragazzi, i quali imparano ben presto a non sforzarsi più di tanto, visto che c'è sempre qualcuno pronto a fare il resto del lavoro. Anche noi adulti quindi dobbiamo metterci in discussione e spesso contenere la nostra inclinazione ad aiutare sempre e a tutti i costi. In questo caso, infatti, fare meno equivale a fare di più. Smettere di sostenere colui che può benissimo riuscire da solo, con un poco di impegno e qualche strategia, è davvero fare il suo bene, per sostenerlo a raggiungere sempre più pienamente le autonomie comportamentali e linguistiche.
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