La logoteatroterapia consiste, tra le altre cose, nell’utilizzare il teatro per lavorare sui prerequisiti che sottendono non solo al linguaggio, ma a tutte le funzioni esecutive, al problem solving, all’organizzazione spazio-temporale e alla sintesi visuo-spaziale. Il tutto con la convinzione di star facendo le prove per uno spettacolo o un gioco tipico del laboratorio per migliorare le competenze attoriali, migliorare il rapporto con l’altro, l’espressione del proprio vissuto e delle personali emozioni affinché diventino parte di una narrazione più grande, di una rappresentazione.
In realtà, insieme all’indispensabile lavoro sopracitato, la logoteatroterapia si cela tra le pieghe di quella o quell’altra azione, portando l’individuo a esercitare ben altre facoltà, ad acquisire o perfezionare, contemporaneamente, ulteriori tipi di competenze, che sono anche degli obiettivi da raggiungere: la conoscenza e la consapevolezza di sé nello spazio, l’organizzazione spazio-temporale, le sequenze, l’inibizione, la memoria verbale, uditiva, di lavoro, a breve e lungo termine, giusto per fare qualche esempio.
Nel momento in cui un qualsivoglia individuo si trovi a compiere un’azione teatrale, ritiene di star facendo soltanto teatro: ovvero interpretare un personaggio trasformandosi in lui, modificando la propria camminata a vantaggio di quella deputata al carattere prescelto, imparare a memoria le battute nelle quali inserire pause e prosodia. Tutto il corpo e la gestualità sono a servizio del testo, del personaggio, dello spettacolo. Non siamo più noi stessi ma diventiamo altro, giocando con le emozioni richieste, con la possibilità, una volta tanto, di esasperare ed esagerare, non più schiavi delle convenzioni sociali a causa delle quali non è mai consigliabile lasciarsi andare, totalmente preda dell’emozione provata in quel momento.
Diamo per scontato di riuscire facilmente a realizzare tutto ciò. In realtà otteniamo tali risultati in virtù di tappe evolutive esperite e superate quand’eravamo bambini, nei tempi giusti, che ci permettono un’armoniosa esistenza nell’ambiente che ci circonda. Ci sappiamo muovere adeguatamente nello spazio, possiamo parlare modulando il tono e il volume della voce, siamo in grado di guardare negli occhi il nostro interlocutore, siamo capaci di dare indicazioni a chi ce le chieda, recuperando nella nostra testa il ricordo di dove si trovi tale via e pianificando in pochi secondi il tragitto necessario a raggiungerla.
“Allora, signore, deve proseguire dritto fino al semaforo, quindi girare a destra e appena vede un giornalaio svoltare a sinistra. Poi prosegua ancora dritto, la piazza che cerca si trova in fondo a quella strada.”
I ragazzi affetti da disturbi con cui solitamente lavoro, di cui ho già fatto menzione in altri interventi, potrebbero avere enormi difficoltà a compiere anche solo una delle azioni enunciate.
Attraverso la logoteatroterapia, oltre all’acquisizione di competenze teatrali, si trovano invece a lavorare proprio sugli aspetti nei quali sono carenti, in maniera armoniosa e spontanea, senza che venga posto l’accento sulla competenza mancante, spesso al contrario, mentre neppure se ne accorgano.
Il conosciutissimo gioco delle trasformazioni dell’oggetto, molto utilizzato in fase di laboratorio da attori di tutte le età, è proprio un ottimo esempio di quel che ho appena detto. L’esercizio è semplice e divertente: il conduttore sceglie un oggetto di uso comune come una penna e chiede a tutto il gruppo di trasformarlo, usandolo come se fosse un’altra cosa, senza l’aiuto verbale. Il conduttore stesso inizierà per primo, ad esempio utilizzando la penna come fosse un termometro. Poi la passerà al primo degli allievi, che magari la userà come fosse una limetta per unghie e così via. Nel teatro tradizionale, il gioco ha la finalità di far sperimentare in prima persona agli apprendisti attori che in teatro qualsiasi cosa può divenire altro da sé, persino un oggetto di uso così comune. Il teatro è il regno delle infinite possibilità, dove non c’è bisogno di avere grandi mezzi o eccezionali scenografie: basta crederci, e la sedia diviene un’automobile, un bambino può trasformarsi in un pirata, una giovane fanciulla in una vecchietta di novant’anni.
Nella drammaterapia, il gioco delle trasformazioni dell’oggetto si arricchisce di un ulteriore obiettivo: stimola l’aspetto creativo, l’immaginazione di chi si trova ad avere in mano la penna, che dovrà attingere a tutte le facoltà fantasiose per trasformarla in qualcos’altro. E se tutto ciò non bastasse, nella logoteatroterapia il gioco va ad allenare altre abilità, che hanno a che fare con dimensioni, forma, categorie e inibizione verbale. Infatti, una volta che l’individuo ha in mano la penna, dovrà innanzitutto riconoscerne la forma e le dimensioni. La penna è un oggetto relativamente piccolo, non si può di certo trasformarlo in un carro armato, perché (come ci insegna il teatro tradizionale) non sarebbe credibile. Inoltre è di forma stretta e allungata. Il bambino è pertanto stimolato a richiamare alla memoria la categoria di tutti quegli oggetti che presentano più o meno la stessa forma e le stesse dimensioni, per esempio una forchetta, il mascara, uno spazzolino da denti, un cacciavite; quindi deve inibire il linguaggio, che lo porterebbe a svelare subito la sua idea una volta avuta: la regola è “non dire, ma agire”. Perciò deve usare la penna come se fosse lo spazzolino, immaginando di essere in bagno, di aprire il tubetto del dentifricio, spalmarcelo sopra e finalmente spazzolare i denti, ricreando con il solo ausilio del corpo l’ambiente del bagno e le azioni che compie tutte le mattine dopo aver fatto colazione. Gli altri bambini o ragazzi dovranno indovinare l’oggetto drammatizzato e il protagonista della scena non può pronunciare parola finché qualcuno dei compagni non abbia centrato l’obiettivo. Pertanto tutto il gruppo è coinvolto nell’azione sia in veste di attore che di spettatore, ma spettatore attivo il cui intervento è indispensabile alla riuscita del gioco e alla conclusione dello stesso. Solo una volta indovinata l’idea, l’azione scenica si può dire conclusa e si potrà passare la penna al prossimo attore.
In realtà, insieme all’indispensabile lavoro sopracitato, la logoteatroterapia si cela tra le pieghe di quella o quell’altra azione, portando l’individuo a esercitare ben altre facoltà, ad acquisire o perfezionare, contemporaneamente, ulteriori tipi di competenze, che sono anche degli obiettivi da raggiungere: la conoscenza e la consapevolezza di sé nello spazio, l’organizzazione spazio-temporale, le sequenze, l’inibizione, la memoria verbale, uditiva, di lavoro, a breve e lungo termine, giusto per fare qualche esempio.
Nel momento in cui un qualsivoglia individuo si trovi a compiere un’azione teatrale, ritiene di star facendo soltanto teatro: ovvero interpretare un personaggio trasformandosi in lui, modificando la propria camminata a vantaggio di quella deputata al carattere prescelto, imparare a memoria le battute nelle quali inserire pause e prosodia. Tutto il corpo e la gestualità sono a servizio del testo, del personaggio, dello spettacolo. Non siamo più noi stessi ma diventiamo altro, giocando con le emozioni richieste, con la possibilità, una volta tanto, di esasperare ed esagerare, non più schiavi delle convenzioni sociali a causa delle quali non è mai consigliabile lasciarsi andare, totalmente preda dell’emozione provata in quel momento.
Diamo per scontato di riuscire facilmente a realizzare tutto ciò. In realtà otteniamo tali risultati in virtù di tappe evolutive esperite e superate quand’eravamo bambini, nei tempi giusti, che ci permettono un’armoniosa esistenza nell’ambiente che ci circonda. Ci sappiamo muovere adeguatamente nello spazio, possiamo parlare modulando il tono e il volume della voce, siamo in grado di guardare negli occhi il nostro interlocutore, siamo capaci di dare indicazioni a chi ce le chieda, recuperando nella nostra testa il ricordo di dove si trovi tale via e pianificando in pochi secondi il tragitto necessario a raggiungerla.
“Allora, signore, deve proseguire dritto fino al semaforo, quindi girare a destra e appena vede un giornalaio svoltare a sinistra. Poi prosegua ancora dritto, la piazza che cerca si trova in fondo a quella strada.”
I ragazzi affetti da disturbi con cui solitamente lavoro, di cui ho già fatto menzione in altri interventi, potrebbero avere enormi difficoltà a compiere anche solo una delle azioni enunciate.
Attraverso la logoteatroterapia, oltre all’acquisizione di competenze teatrali, si trovano invece a lavorare proprio sugli aspetti nei quali sono carenti, in maniera armoniosa e spontanea, senza che venga posto l’accento sulla competenza mancante, spesso al contrario, mentre neppure se ne accorgano.
Il conosciutissimo gioco delle trasformazioni dell’oggetto, molto utilizzato in fase di laboratorio da attori di tutte le età, è proprio un ottimo esempio di quel che ho appena detto. L’esercizio è semplice e divertente: il conduttore sceglie un oggetto di uso comune come una penna e chiede a tutto il gruppo di trasformarlo, usandolo come se fosse un’altra cosa, senza l’aiuto verbale. Il conduttore stesso inizierà per primo, ad esempio utilizzando la penna come fosse un termometro. Poi la passerà al primo degli allievi, che magari la userà come fosse una limetta per unghie e così via. Nel teatro tradizionale, il gioco ha la finalità di far sperimentare in prima persona agli apprendisti attori che in teatro qualsiasi cosa può divenire altro da sé, persino un oggetto di uso così comune. Il teatro è il regno delle infinite possibilità, dove non c’è bisogno di avere grandi mezzi o eccezionali scenografie: basta crederci, e la sedia diviene un’automobile, un bambino può trasformarsi in un pirata, una giovane fanciulla in una vecchietta di novant’anni.
Nella drammaterapia, il gioco delle trasformazioni dell’oggetto si arricchisce di un ulteriore obiettivo: stimola l’aspetto creativo, l’immaginazione di chi si trova ad avere in mano la penna, che dovrà attingere a tutte le facoltà fantasiose per trasformarla in qualcos’altro. E se tutto ciò non bastasse, nella logoteatroterapia il gioco va ad allenare altre abilità, che hanno a che fare con dimensioni, forma, categorie e inibizione verbale. Infatti, una volta che l’individuo ha in mano la penna, dovrà innanzitutto riconoscerne la forma e le dimensioni. La penna è un oggetto relativamente piccolo, non si può di certo trasformarlo in un carro armato, perché (come ci insegna il teatro tradizionale) non sarebbe credibile. Inoltre è di forma stretta e allungata. Il bambino è pertanto stimolato a richiamare alla memoria la categoria di tutti quegli oggetti che presentano più o meno la stessa forma e le stesse dimensioni, per esempio una forchetta, il mascara, uno spazzolino da denti, un cacciavite; quindi deve inibire il linguaggio, che lo porterebbe a svelare subito la sua idea una volta avuta: la regola è “non dire, ma agire”. Perciò deve usare la penna come se fosse lo spazzolino, immaginando di essere in bagno, di aprire il tubetto del dentifricio, spalmarcelo sopra e finalmente spazzolare i denti, ricreando con il solo ausilio del corpo l’ambiente del bagno e le azioni che compie tutte le mattine dopo aver fatto colazione. Gli altri bambini o ragazzi dovranno indovinare l’oggetto drammatizzato e il protagonista della scena non può pronunciare parola finché qualcuno dei compagni non abbia centrato l’obiettivo. Pertanto tutto il gruppo è coinvolto nell’azione sia in veste di attore che di spettatore, ma spettatore attivo il cui intervento è indispensabile alla riuscita del gioco e alla conclusione dello stesso. Solo una volta indovinata l’idea, l’azione scenica si può dire conclusa e si potrà passare la penna al prossimo attore.
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