Passa ai contenuti principali

Prendersi cura degli altri a teatro

A breve disponibile anche tramite podcast.

I ragazzi che quel pomeriggio parteciparono al laboratorio di Logoteatroterapia erano sei preadolescenti di 11 e 12 anni.
I nomi con i quali ve li presenterò sono tutti di fantasia, come al solito.
Alcuni sono affetti dal Disturbo dello Spettro Autistico, altri da ADHD, DSA e lievi tratti di oppositività. Eppure, è sempre un piacere lavorare con loro. Allegri, spumeggianti, a volte faticano a mantenere l’attenzione su un argomento e ovviamente hanno cadute sulla pragmatica, ma la loro risorsa più grande è la profonda amicizia che hanno stabilito nel tempo. Grazie a essa nessuno patisce le risposte non contestuali o le azioni eccessive, anzi si ride tanto e spesso.
Oggi però desidero stimolare sempre più le abilità empatiche, il saper “vedere” l’altro e contestualmente accorgersi delle sue eventuali necessità. Quindi, dopo un gioco iniziale tutti insieme, propongo ai miei piccoli eroi di sciogliere il corpo in modalità statica, come abbiamo fatto già tante volte. Solo che oggi pomeriggio saranno loro a condurre l’esercizio, dopo un breve esempio da parte mia. Pertanto, uno alla volta si porrà di fronte a tutti e, grazie all’azione dei neuroni specchio, inventerà movimenti che i cinque amici dovranno immediatamente riprodurre. Tali movimenti o azioni mimiche dovranno essere ginniche o espressive. Ed ecco che iniziano i guai.
Gianluca fa movimenti sconclusionati, non finalizzati e troppo veloci. Rebecca si lancia in una serie di posture che ricordano molto la danza classica, della quale è appassionata, e ovviamente suscitano l’immediato rifiuto da parte dei tre maschi. Daniela, che tende sempre a rimanere nelle retrovie con atteggiamenti di superiorità verso gli altri, non mostra alcun interesse a fare movimenti per gli altri ragazzi, vorrebbe semplicemente ricevere da loro senza dare alcunché. Ma le difficoltà più grandi le incontriamo quando Marco, ragazzino agilissimo, produce una serie di movimenti, salti, torsioni che ricordano molto lo sport parkour e che risultano proprio impossibili da replicare. In ultimo Federico non sa davvero cosa fare e semplicemente riproduce azioni già proposte da me.
Mi rendo improvvisamente conto che un’attività così semplice, di immediato accesso per tutti, ha avuto il merito di rendere evidenti le fragilità di ciascuno nel rapporto con gli altri. Ci sediamo un attimo a terra, quindi, e ricordo loro che la richiesta non era esibirsi nelle azioni motorie nelle quali ciascuno eccelle. La richiesta era che si proponesse una serie di movimenti accessibili a tutti, per provare a “sentirsi” un sol corpo andando insieme. Non ultimo, l’esercizio richiedeva di uscire dalla zona comfort per prendersi cura dei compagni e donare loro qualcosa di sé, anche il solo movimento mimico di aprire la finestra e affacciarsi. Ho approfondito il concetto più  o meno con le seguenti parole: “Sapete, ragazzi, condurre un esercizio è un po’ come prendersi cura del gruppo. Voi ormai siete grandi e anche molto bravi, per questo ho sentito che potevo affidarvi questa responsabilità. Per una manciata di secondi il gruppo dipende da voi, quindi non dovete metterlo in difficoltà con azioni troppo difficili o al contrario proporre cose eccessivamente semplici che non suscitano l’interesse di nessuno. Occorre trovare il giusto equilibrio, ma soprattutto ricordare di guardare gli altri per verificare sempre se riescono a seguirci e rallentare, laddove ci rendiamo conto che fanno fatica”.
I sei ragazzi comprendono al volo. Condurre non è esibirsi ma avere cura. Mettere i propri talenti al servizio dei compagni, rispettando tempi e modi di ciascuno.
“Bene, dai. Riproveremo la prossima volta”, ho concluso. “Ora facciamo un ultimo gioco”.
Ci salutiamo pochi minuti dopo, con sorrisi e abbracci. Dentro di me ringrazio ciascuno di loro. Penso proprio che oggi abbiamo messo a fuoco qualcosa d’importante.

Commenti