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Logoteatroterapia la sordità e il poliziotto

Disponibile a breve anche tramite podcast.

Silvia, nome di fantasia, è una ragazza di ventidue anni di origine straniera e affetta da sordità. Di grande e vivace intelligenza, è perfettamente in grado di orientarsi in una enorme città caotica, di provvedere a se stessa e portare a termine i percorsi di studi che ha man mano seguito negli anni, ma l’importante difficoltà uditiva con la quale convive fa sì che la ragazza si affidi moltissimo alle abilità visive per comprendere contesto e messaggi altrui, e a quelle motorie e mimiche per produrre le rispettive risposte. Nel laboratorio di logoteatroterapia pertanto, tra le altre cose, lavoriamo esattamente sulla produzione fràstica del linguaggio diretto, ovvero delle battute pronunciate da determinati personaggi a seconda delle situazioni nelle quali si trovano e delle emozioni che provano.
Silvia oggi sceglie di interpretare la parte del poliziotto e affida a me quella del ladro. L’emozione richiesta è la rabbia e non è affatto difficile per lei immaginare una breve scena nella quale il primo personaggio si arrabbia perché vede il secondo rubare. Ma quando le chiedo di produrre una battuta adeguata, ecco che emergono tutte le difficoltà. Siamo ancora sedute intorno al tavolo sul quale ha aperto il quaderno e provato a scrivere la situazione che ha immaginato ma ci siamo interrotte sulla battuta del personaggio e Silvia non riesce proprio ad andare avanti. “Forse potremmo fornirle noi qualche esempio”, suggerisce una delle tirocinanti presenti nella stanza. “Esatto”, rincara la dose l’altra studentessa. “Anche io farei così a questo punto”. Le ragazze hanno ragione, anch’io ho spesso fornito stringhe corrette e contestuali a ragazzi che proprio non avevano idea di cosa avrebbero dovuto pronunciare in un dato momento. Ma non voglio ancora gettare la spugna con Silvia, ben consapevole di quanto un apprendimento abbia un impatto maggiore e duraturo se scaturito dall’interno e non fornito bell’e pronto dall’esterno. Invito dunque una delle studentesse a recitare la breve scena improvvisata del poliziotto e del ladro con me. Silvia la dovrà osservare con la massima attenzione. Subito dopo lei stessa si disporrà a recitare, replicando il copione motorio-espressivo che io le ho appena creato e che è ben presente nella sua memoria a breve termine. Recitando, le sorge spontanea alle labbra la parola “Fermo!” nel momento in cui vede il ladro e gli punta la pistola. Ecco, ancora una volta il corpo e le azioni che compie supportano il linguaggio congruo e contestuale. Subito dopo la mia attrice ci rende manifesto che vorrebbe far alzare le mani al ladro e stavolta siamo noi a svelarle la dicitura corretta ovvero “mani in alto”. E quando Silvia si avvicina al malcapitato per mettergli le mani dietro la schiena, pronuncia ancora una nuova parola: “prigione”. Da tutti questi elementi elaboriamo la battuta corretta che ora diventa “Fermo. Mani in alto. Ti porto in prigione”.  Silvia la memorizza e la prova più volte nell’improvvisazione testé creata, ogni volta con maggiore convinzione ed energia recitativa. Ottiene applausi e sinceri complimenti per la credibilità dell’intera performance. Si affretta poi a raggiungere il quaderno, lasciato distrattamente sul tavolo, per trascrivere la battuta che ha appena creato, nel desiderio di fermarla, di non perderla e depositarla nel magazzino della memoria a lungo termine.
Il corpo in movimento, l’azione e la finzione scenica, l’altro che recita accanto a me. Non serve nient’altro per la costruzione e la formazione del linguaggio.

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